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Perché comunicare l’innovazionedi Andrea Granelli Questa ricerca, condotta dalla Fondazione Cotec sia in Spagna sia in Italia, cerca di rispondere a un unico fondamentale e attuale quesito: perché è importante comunicare l’innovazione? Il tema è complesso e – al di là della apparente semplicità sug- gerita da come viene enunciata la domanda stessa – apre un’am-pia riflessione sul tema più generale dell’innovazione e su come le aziende comunicano o dovrebbero comunicare. Lo stile del libro è volutamente pratico e discorsivo e si basa su interviste sul cam-po, fatte ai protagonisti di tale processo.
Poiché molti degli aspetti trattati hanno forti implicazioni teo- riche, sono presenti nel testo brevi riflessioni e richiami alle più recenti teorie, introdotte per meglio inquadrare il tema e soprat-tutto identificare e pesare le sue dimensioni più critiche.
La rilevanza del tema è legata al fatto che la comunicazione dell’innovazione non è separabile dall’innovazione stessa, ma anzi ne rappresenta un aspetto assolutamente costitutivo. Auten-tico innovatore non è colui che ha le idee o possiede le tecniche, ma chi le traduce in fatti concreti e utili e soprattutto le diffonde, e quindi in un certo senso le “comunica”. In questo aspetto sta la differenza fra invenzione – fatto tecnico – e innovazione – fatto economico, sociale ma anche culturale.
L’innovazione si misura dall’impatto che ha sul mercato (cioè da come risolve in maniera diffusa specifici problemi) e non solo dalla sua novità tecnica, dallo stupore che vi si associa. E la dif-fusione di nuovi prodotti è sempre legata alla capacità dei con-sumatori di comprenderne il valore d’uso e di acquisirne le lo-giche e le modalità di funzionamento. Anche i prodotti più rivo- luzionari, con le maggiori promesse per gli utenti, possono essere dei flop commerciali. Il grande dibattito oggi in atto sul digital di-vide è anche legato a questo aspetto. L’emarginazione digitale non è solo legata ai costi della tecnologia o al fatto che le aree remote o più povere non sono connesse. L’aspetto centrale è la difficol-tà delle tecnologie informatiche e le barriere all’utilizzo che esse frappongono all’utente.
La piena accettazione da parte degli utenti è quindi un requi- sito fondamentale per un’innovazione di successo. Come pure la diffusione dei saperi per permettere ad altri di utilizzare la tecno-logia in questione e completarla o migliorarla.
Non sempre, però, i mutamenti culturali ipotizzati si verifica- no. Se rileggiamo la dichiarazione resa dalle autorità nel 1858 al-l’arrivo del primo cavo transatlantico del telegrafo («È impossibi-le che i vecchi pregiudizi e le ostilità continuino a esistere, quan-do è stato creato un tale strumento per lo scambio di pensieri tra tutte le nazioni della Terra»), notiamo che è rimasta al puro livello delle aspirazioni. Più frequentemente, tuttavia, i benefici previ-sti si materializzano molto dopo rispetto a quanto ipotizzato dagli inventori. Una celebre analisi condotta da Scott D.N. Cook sfata l’efficacia immediata di una delle più importanti innovazio-ni della storia dell’umanità, quella di Gutenberg. In Le rivoluzio-ni tecnologiche e il mito di Gutenberg, egli sostiene infatti che il procedimento della stampa comprendeva in sé varie invenzioni, fra cui nuove tecniche per la fusione dei caratteri e la messa a punto di un inchiostro in grado di aderire ai caratteri metallici. In ogni caso, anche considerando tutto ciò come una sola invenzio-ne, per completarla furono necessari altri progressi determinanti: «Il quadro della rivoluzione di Gutenberg che si trova nei libri di storia e nelle enciclopedie è inesatto sul piano storico e fuorvian-te dal punto di vista concettuale. Vorrebbe farci credere che una sola tecnologia nuova sia bastata a determinare rapidi e profondi cambiamenti nell’alfabetizzazione, nei metodi di apprendimento e nelle istituzioni sociali. Questo è ciò che io definisco il “mito di Gutenberg”, e non un fatto storico accertato». Se consideriamo isolatamente l’invenzione di Gutenberg, non si ha certo «l’impres-sione di trovarci di fronte all’invenzione e allo sfruttamento di una tecnologia rivoluzionaria, ma piuttosto all’uso conservativo di una tecnica innovatrice per la produzione meccanica di manoscritti. In effetti, l’intento stesso della stampa a caratteri mobili e le inno-vazioni tecniche che Gutenberg vi apportò erano rivolti alla pro- duzione di volumi che somigliassero il più possibile ai manoscrit-ti». Basti ricordare che per stampare la Bibbia di Gutenberg su pergamena occorrevano centinaia di pelli di pecora, a quei tempi molto costose (una copia richiedeva infatti le pelli di 50-75 peco-re), e infatti ne vennero stampate solo 200 copie, trattandosi di un prodotto che pochi si potevano permettere. Infine, va ricordato che la maggior parte degli uomini del Quattrocento non era in gra-do di leggere e la popolazione nel suo complesso non era quindi pronta per trarre beneficio dalle straordinarie potenzialità della nuova invenzione. Pertanto, conclude Cook, «qualsiasi potenziale cambiamento sociale di massa associato all’avvento della stampa deve essere valutato alla luce della diffusione dell’alfabetizzazio-ne di massa».
Questa importanza delle pratiche sociali nel determinare modalità di uso e successo di particolari tecnologie è oggi ac-cresciuta poiché il consumatore moderno di contenuti digitali ha abbandonato la sua indole passiva, cominciando a condizionare i prodotti che gli vengono proposti. È sempre più manifesto questo crescente potere del consumatore, che esce dalla sua tradiziona-le passività per trasformarsi in vero e proprio attore del processo di consumo. E quindi cambia anche la natura della comunicazio-ne verso questi clienti-produttori (o prosumer, per usare la felice espressione coniata da Toffler dalla crasi di producer e consum-er, a indicare che i consumatori dell’era postindustriale diventa-no veri e propri “consumatori consapevoli”, spesso addirittura produttori).
Le riflessioni di Cook mettono però in luce un altro aspetto importante ai fini del nostro discorso: una tecnologia, per esse-re effettivamente innovativa, deve in qualche modo ripensare al processo a cui viene applicata e non solo migliorarne alcune parti. E ancora una volta il ripensamento – reingegnerizzazione, come dicono gli anglosassoni – richiede una forte comunicazione verso gli utenti finali per convincerli che il nuovo processo, spes-so non convenzionale, migliora complessivamente le prestazioni. È su questo genere di innovazione che si è animato il dibattito sul-l’importanza della velocità, dell’arrivare prima. I manuali di stra-tegia hanno sempre raccomandato di essere i primi a lanciare un nuovo prodotto, per consolidare una presenza sul mercato e un brand. Ma non sempre essere “first mover” è la strategia miglio-re. Quando si devono cambiare le abitudini dei consumatori, l’ap-proccio più efficace può essere l’ingresso come secondo, ma con l’obiettivo di recuperare rapidamente le quote di mercato. Que-sta strategia – detta quick follower – si basa sul fatto che vi è una costosa curva di esperienza da percorrere per lanciare il prodot-to, un onere che conviene lasciare al concorrente. Spesso questi investimenti iniziali non sono solo legati al prodotto, al suo per-fezionamento, al packaging, alla formazione delle strutture com-merciali, ma all’esigenza di spiegare al mercato efficacemente e diffusamente le nuove opportunità, talvolta perfino di andare con-tro credenze consolidate. È stato questo il caso delle assicurazio-ni telefoniche. L’acquisto di una polizza al telefono o tramite Inter-net richiede non soltanto di imparare delle nuove procedure, ma soprattutto di fidarsi di una macchina. Le assicurazioni vendono fiducia e tranquillità per il futuro e l’agente assicurativo è sempre stato il tramite e il garante di ciò. L’attribuire questo compito a una macchina o a un operatore telefonico di cui non si conosce il nome e non si vede il volto è certamente una grande innovazio-ne. Il primo a muoversi fu Generali, lanciando Genertel, e dovette investire molto in comunicazione per spiegare al mercato che era possibile e vantaggioso per i consumatori acquistare le polizze al telefono. Questo “evangelismo” – per usare un’espressione conia-ta da Steve Jobs per indicare tutte quelle attività di comunicazio-ne il cui scopo era spiegare, con parole semplici ma convincenti, i grandi benefici del personal computer, avvicinando il consuma-tore alla tecnologia e non viceversa – fu molto costoso e orientato non tanto a reclamizzare un prodotto, quanto una nuova modalità di vendita. Per questo motivo il nuovo entrante Lloyd 1885 (og-gi Genialloyd) del gruppo Ras, poté concentrarsi rapidamente ed esclusivamente sulla vendita dei suoi prodotti e conquistò rapida-mente quote di mercato a scapito del first mover.
Quindi la capacità di spiegare una nuova tecnologia o un nuo- vo prodotto diventa sempre più importante rispetto al possede-re esclusivamente i “muscoli tecnologici”. È sempre più frequen-te che a una scoperta scientifica giungano più persone (come per esempio nel caso delle ricerche sull’Aids o sulla genomica), mentre sono sempre meno quelli che riescono ad avvicinare le grandi masse all’innovazione. In questo ambito stanno assumen-do un ruolo sempre più importante i canali distributivi, non più semplici distributori ma vera e propria cinghia di trasmissio-ne dell’innovazione. E questo spiega il loro successo. Per esem-pio, il gruppo Saturn-Media Markt, nato in Germania “appena” nel 1979, possiede oggi oltre 400 megastore in 11 paesi, con oltre 25.000 dipendenti, e nel 2003 ha raggiunto i 10 miliardi di euro di fatturato. Il negozio di Amburgo è il più grande “consumer elec-tronics megastore” del mondo, con i suoi oltre 16.000 metri qua-drati. È in questi luoghi che avviene una parte importante della comunicazione sui nuovi prodotti digitali; ed è qui che va veico-lata una comunicazione efficace dei prodotti e dei marchi azien-dali. In strutture come queste il consumatore compra i prodotti non solo in funzione delle prestazioni dichiarate e del prezzo, ma anche e soprattutto in base alle credibilità innovative che il mar-chio emana. La quantità di opzioni che i nuovi prodotti ad alto contenuto tecnologico (ma non solo) possiedono rende sempre più difficile il confronto oggettivo, rimandando crescentemente al valore del marchio. Inoltre, queste strutture distributive moderne non si limitano a occupare uno spazio fisico: creano corsi di for-mazione, strutture di assistenza domestica, siti Internet e riviste specializzate. Sono quindi partner naturali per ogni comunicazio-ne sull’innovazione.
La diffusione della conoscenza (e quindi dell’innovazione) è l’aspetto fondativo della nostra società, ribattezzata appunto per questo motivo “società della conoscenza”. In particolare, la co-municazione tecnologica ha un ruolo centrale nell’economia in quanto strumento necessario, anzi indispensabile, che permette sia a chi utilizza la conoscenza, sia a chi la produce di identificare, qualificare, esplorare e valutare le potenzialità delle esternalità di conoscenza, e cioè la capacità di moltiplicare il valore senza ne-cessariamente consumarsi. La conoscenza diventa dunque risorsa economica fondamentale e quindi le informazioni, e soprattutto la conoscenza tecnologica, non possono essere più considerate variabili esogene – fuori dal sistema economico – come si era se-renamente ritenuto di poter postulare fino a poco tempo fa, ma diventano elemento centrale – anzi costitutivo. Ciò porta natu-ralmente delle implicazioni nel sistema della protezione. La co-noscenza, da meccanismo ancillare da affiancare alla produzione, diventa elemento portante della nuova società chiamata voluta-mente “della conoscenza” e quindi la comunicazione assume un ruolo strategico.
Per questo motivo va ridotta l’ossessione della protezione in- tellettuale. Il brevetto, elemento chiave dell’economia industriale centrata sulla produzione, sta cambiando ruolo. Spesso è ostativo allo sviluppo, altre volte ancora viene usato per “cementare” al-leanze. Internet è stata ribattezzata “The biggest copy machine of the world” e questo aspetto va tenuto presente. Vanno aumentate le occasioni per il libero scambio delle idee.
Per esempio, nuove iniziative come il some rights reserved (letteralmente, “alcuni diritti riservati”) lanciato da Creative Commons, è un aggiornamento al principio dell’all rights reserved che non ha più ragione d’essere nell’era digitale, perché sopprime la comunicazione, minando alla base la filiera dell’innovazione. Prodotti molto sofisticati come i videogiochi di nuova generazione non sarebbero possibili senza la condivisione delle conoscenze fra sviluppatori, società di software, di hardware, narratori e utenti.
Il concetto di Open Source – software libero – non è però ap- plicabile solo agli “stretti” ambiti delle tecnologie informatiche. Il campo di applicazione è molto più vasto: si va dalla meccanica alla chimica fino all’editoria. Di recente sono sorte organizzazioni indipendenti come Bios (Biological Innovation for Open Socie-ty) e Science Commons che applicano ai temi del biotech e della genomica i principi del Creative Commons. Questo progetto è nato con la sovvenzione di un milione di dollari della Fondazione Rockefeller. Si badi bene, l’Open Source non è contro la proprietà intellettuale, non vuole distruggerne l’impalcatura giuridica, ma è una forma specifica di protezione intellettuale, anzi di copyright. La proprietà è saldamente posseduta dagli autori o inventori che quindi la licenziano al pubblico in “maniera generosa” Il fenomeno è ormai inarrestabile. Basti pensare che nei soli Stati Uniti nel 2001 i progetti di software Open Source erano cir-ca 17.000 e, quattro anni dopo, sono diventati 74.000. Oltretutto l’Open Source è una forma sofisticata e trasparente di comunica-zione. Il prodotto viene “aperto” ai principi del suo funzionamen-to, consentendo di raccontare la competenza tecnologica impie-gata, ma anche di fare formazione sulle tecniche utilizzate.
Certamente il fornire prodotti o servizi innovativi è quindi uno dei modi più efficaci di comunicazione dell’innovazione, ma ormai non è più sufficiente: gli stakeholder chiedono di più al-le aziende. La turbolenza degli scenari geopolitici e dei merca-ti rende sempre più difficile prevedere le performance aziendali. Per questo motivo risulta importante convincere gli azionisti (e talvolta i clienti) che la leadership di oggi rimarrà anche leader-ship di domani. E per questo non bastano i risultati attuali, sep-pur brillanti. Il timore che il mercato svolti, che nascano nuovi concorrenti, che mutino le preferenze o le capacità di spesa dei consumatori sono sempre in agguato. Per questo motivo le azien- de devono comunicare la loro “capacità” di essere innovatori e di sapere ascoltare il mercato: la sensibilità di cogliere prima degli altri i segnali deboli di un suo mutamento, l’abilità di riposizionar-si velocemente quando il mercato lo richiede, l’abilità di gestire in contemporanea più strategie quando le indicazioni del mercato sono contraddittorie.
Questo tipo di comunicazione deve essere quindi non solo fat- tuale, ma anche e soprattutto simbolica perché deve rassicurare su di un futuro che sarà molto diverso dal presente. In questo caso è difficile convincere che i punti di forza dell’oggi varranno anche domani. Anzi, vi sono molti casi in cui gli aspetti più forti dell’oggi – si pensi alle competenze, ai macchinari, a una certa conoscenza dei consumatori – possono addirittura diventare le debolezze del domani.
Per questo motivo la comunicazione dell’innovazione deve fa- re maggiormente leva sugli aspetti simbolici ed emozionali. Nel suo fondamentale libro sul funzionamento dell’opinione pubblica, Lippman osservava già negli anni Venti che «i simboli sono così utili e così misteriosamente potenti che la parola stessa emana un fascino magico». Va quindi superato lo stadio di comunicazione semplicemente “fattuale”. Poiché il futuro rimane comunque in-tangibile, bisogna costruire negli stakeholder (in primis clienti e azionisti) la fiducia verso le possibilità dell’azienda di continuare o addirittura migliorare le proprie capacità di fornire prodotti e servizi più che adeguati. La fiducia tramuta i segnali deboli in for-ti. L’innovazione è complessa e per definizione “nuova” e quindi non riconducibile a “casi già visti”. Il futuro è intriso di segnali de-boli; più che ignorarli le aziende devono preparare i loro stakehol-der a tradurli in segnali forti e di consenso. Per questi motivi i grandi leader sono anzitutto comunicatori dell’innovazione, poiché possiedono la capacità di spostare le masse verso progetti ambiziosi ma incerti nella loro definizione, riuscendo a far “mate-rializzare” a chi li segue il futuro desiderabile. Non sono plagiato-ri, poiché partono da evidenze sperimentali anche se minute – i segnali deboli appena descritti – a cui riescono però ad attribuire valori emozionali e concretezza straordinari. È questa capacità di “produrre simboli” che li rende capaci di ottenere risultati con-siderati dai più irraggiungibili. Sono loro che ci possono libera-re da questo “intontimento da declino”. Come ha notato il grande storico Krzysztof Pomian, «la secolare trasformazione del mondo da passatista a futurista si manifesta soprattutto nel riorientamen- to temporale delle credenze fondatrici di senso», e solo i leader hanno la forza per creare e diffondere nuove credenze. Oggi, più che fare proliferare “incubatori di impresa”, dovremmo rilanciare – anche nell’uso del nome – iniziative come quella lanciata a Mila-no nel 1838 con l’obiettivo di «migliorare le arti utili e le manifat-ture della provincia di Milano», dal nome programmatico di “Cas-sa d'incoraggiamento per le arti e mestieri”.
Oltretutto la regina di tutte le comunicazioni fattuali – i risul- tati del bilancio – ha perso nei tempi recenti molta della sua effi-cacia. Non solo per i motivi appena descritti, ma anche per la pro-gressiva artificialità con cui i fatti economici vengono descritti. Senza arrivare alle storture dei casi Enron e Parmalat, è comun-que evidente che le imprese hanno in generale aumentato il nume-ro di operazioni straordinarie e non sempre questa non-repilicabi-lità viene sufficientemente descritta nei bilanci. Per questo motivo bilanci e budget sono guardati con sempre maggiore scetticismo e non sono più sufficienti (se mai lo erano stati) per comunicare la capacità delle aziende di continuare a essere competitive.
Infine, comunicare l’innovazione richiede a sua volta inno- vazione negli strumenti stessi del comunicare. In un momento in cui la comunicazione – grazie all’avvento delle tecnologie digitali – vive una fase frenetica di innovazione aprendo modalità un tem-po impensabili (per la loro efficacia come per la loro pervasivi-tà), non è possibile che la comunicazione dell’innovazione utilizzi solo strumenti “tradizionali”. Tradirebbe se stessa o non raggiun-gerebbe una parte dei destinatari – quelli più innovativi – che di questi nuovi strumenti sono ormai quotidiani utilizzatori. Bisogna cogliere lo spirito del tempo; oggi – grazie anche alla diffusione delle nuove tecnologie digitali – le tecniche di marketing e di co-municazione di massa si sono straordinariamente innovate. Pen-siamo, per esempio, al viral marketing o al guerrilla marketing, ma anche a iniziative di grande respiro come il premio Pirelli In-ternetional Award, che premia la migliore comunicazione scienti-fica tramite Internet, o il premio Innovazione Finmeccanica rivol-to alle migliori idee di business e mirato a dare un senso concreto dell’importanza dell’innovazione all’interno del gruppo (nella sua prima edizione, nel 2004, il premio ha registrato la presentazio-ne di oltre trecento idee innovative). Stare al passo con i tempi o anticipare nuove tendenze richiede anche l’adozione di linguaggi e strumenti contemporanei. Spot televisivo e comunicato stampa non sono più sufficienti. Non è solo un problema di tecnica. Gali- leo non fu solo un grande scienziato, ma innovò anche nel modo di comunicare. Quando sceglieva un genere letterario – il trattato, la lettera, il dialogo – lo faceva per ragioni sia di contenuto sia di pubblico da raggiungere. La sua grande idea di servirsi del dialogo per parlare di scienza era legata a una precisa strategia di comuni-cazione. Il dialogo – come ha osservato Paola Govoni in un recen-te libro sulla storia della comunicazione scientifica italiana – ri-chiama l’oralità e l’azione del teatro e ha insito in sé lo scopo pe-dagogico di coinvolgere l’interlocutore/discepolo in un procedere dell’argomentazione radicalmente diverso da quello, già dato, del trattato. Galileo scelse inoltre di rinunciare al latino per rivolgersi anche ai non specialisti.
Bisogna giungere a costruire una vera e propria cultura della comunicazione, che parta innanzi tutto all’interno delle aziende. Il primo target di ogni comunicazione dell’innovazione devono es-sere i dipendenti stessi, soprattutto oggi che una delle priorità per rilanciare l’economia è scrollarci di dosso l’imperante “cultura del declino”.
Un’autentica cultura dell’innovazione richiede inoltre che si possa (anzi in un certo senso si “debba”) sbagliare, per testimo-niare la vera sperimentazione, che non può essere sempre fortuna o “rischio calcolato”. Per questo motivo, premiare gli errori può essere uno straordinario strumento di comunicazione. Non si trat-ta di valorizzare gli errori banali o fraudolenti, ma quelli coraggio-si, dove la competenza, la passione e l’energia si sono canalizzate in maniera straordinariamente efficace, ma forse su un obiettivo troppo ambizioso. Il problema non è solo giuridico; non si trat-ta solo di normare in maniere diversa il fallimento aziendale. Si tratta di combattere uno degli stereotipi che uccide l’innovazione: “chi non fa non sbaglia”. Le professionalità si sviluppano se l’er-rore diventa palestra d’analisi e di riflessione e non notitia cri-minis. Lo stesso Michelangelo ci conforta su questo tema: «Assai acquista chi perdendo impara».
D’altra parte, comunicare l’innovazione è difficile. La paura dell’innovazione è molto presente nella gente. L’uomo è abitudi-nario e guarda sempre con sospetto le novità, soprattutto quelle complesse. Inoltre l’uomo ha sempre temuto la tecnica. La lette-ratura e il cinema sono pieni di racconti dove è protagonista la tecnologia che si rivolta contro il suo inventore: dai robot che si ribellano al loro creatore alle molecole di studio costruite in vi-tro che diffondono epidemie, dal software che non accetta più i comandi del proprio programmatore alle sostanze chimiche che risultano nocive quando se ne fa un impiego diffuso.
Ma la paura della tecnica e del suo potenziale innovativo non è legata solo alle forze che essa può scatenare (di cui l’energia nucleare è stata per molto tempo simbolo), ma anche per la sua crescente imprevedibilità. Con sempre maggiore frequenza la tecnologia viene impiegata per usi diversi da quelli che aveva in mente il suo inventore. Un esempio paradigmatico è la storia del Ddt. Venne scoperto da Ziegler nel 1874, ma si dovettero aspet-tare 65 anni prima che il chimico svedese Paul Müller, nel 1939, ne scoprisse le proprietà insetticide, lanciando una vera e propria rivoluzione agricola. Passò poi un altro notevole lasso di tempo prima che venisse ammessa la sua nocività. Problemi di questo genere sono naturalmente sempre in agguato; in generale capita frequentemente che le motivazioni intuite dal suo inventore non diventino le successive motivazioni d’uso. Gli esempi sono nume-rosi: Edison, dopo aver costruito il prototipo del registratore nel 1877, scrisse un articolo in cui proponeva dieci possibili usi per il nuovo oggetto: fissare per sempre le ultime parole dei moribondi, registrare libri da far ascoltare ai ciechi, annunciare l’ora esatta, insegnare a scrivere sotto dettato e altri ancora. La riproduzione della musica sembrava non interessarlo particolarmente. Il Viagra venne scoperto alcuni anni fa come rimedio per l’angina pectoris; la novocaina venne pensata per i chirurghi, ma poi utilizzata dai dentisti.
Questa non pianificabilità dell’innovazione è stata recentemente analizzata dal sociologo francese Jean-Louis Gasse. Egli sostiene che esistano tre tipi di innovazione: 1) fare meglio ciò che si faceva ieri,2) fare oggi ciò che ieri era impossibile,3) fare oggi ciò che ieri era impensabile.
Per esempio, gli Sms e molte delle innovazioni recenti abilitate dalle nuove tecnologie digitali appartengono all’ultimo tipo; que-sto genere di innovazioni vengono spesso “inventate dall’utente”. Sono cioè “impensabili” per lo scopritore della tecnologia, che ne ipotizza un certo utilizzo; ma è poi l’utente che ne determina il “vero” utilizzo.
Questa paura – che ha quindi certamente delle componen- ti irrazionali – è però anche legata a quella che potremmo chia- mare “ansia da non comprensione”. È quest’ultimo aspetto che può essere contrastato da una comunicazione efficace. I già citati “evangelisti” di Steve Jobs furono straordinariamente efficaci in questo ambito. Nei loro seminari non promuovevano i computer della Apple, ma spiegavano, con parole semplici ed efficaci, le in-credibili funzionalità dei neonati personal computer, suggerendo nel contempo che erano veramente alla portata di tutti. Il mes-saggio che diffusero al mercato era che la Apple era un’azienda innovativa non solo per i prodotti che concepiva, ma anche per il modo con cui sensibilizzava e aiutava i consumatori a compren-dere le meraviglie della tecnica. Il tutto era naturalmente raffor-zato da una efficacissima e rivoluzionaria campagna pubblicita-ria. Nel 1984 il lancio del Macintosh venne accompagnato da uno spot visionario firmato da Ridley Scott e trasmesso durante il Su-per Bowl.
Infine va tenuto presente che la comunicazione dell’innova- zione deve risolvere un aspetto apparentemente contraddittorio: il successo richiede una “banalizzazione” dell’innovazione, che quindi deve diventare ordinaria e non più stupefacente. La vera innovazione si riconosce quando non innova più. È probabilmen-te questa dimensione che la rende così “difficile da maneggiare”.
Che cosa è emerso dalla ricerca? Senza nulla voler togliere al pia-cere della lettura e a un confronto diretto con i punti di vista dei protagonisti, vi sono – pur nella diversità delle opinioni e degli stili argomentativi – alcune emergenze comuni certamente signi-ficative.
Innanzi tutto è opinione abbastanza condivisa che la comuni- cazione è una funzione strategica e deve essere integrata con le funzioni chiave dell’azienda. Non più come un tempo attività ancillare ed episodica, da coinvolgere in alcuni momenti specifici della vita aziendale, come i road-show, il lancio di nuovi prodot-ti o il contenimento dell’associazione consumatori, ma processo continuativo di monitoraggio, accompagnamento e veicolazione di un insieme coerente e integrato di messaggi. Per alcune istitu-zioni il raccordo della comunicazione con il marketing, le attività di fund raising e la attività di protezione intellettuale e di relati-vo trasferimento sono quasi imperative. È peraltro proprio da una frequentazione continuativa e operativa della comunicazione con le attività caratteristiche di un’azienda che si sviluppa quell’effica-cia comunicativa fatta di abilità mediatiche ma anche (e talvolta soprattutto) di intima conoscenza della materia, che solo una di-retta esperienza sul campo può dare. Talvolta la comunicazione può diventare addirittura propositiva, segnalando per esempio al marketing di non puntare a realizzare un prodotto “irraccontabi-le” al mercato o all’opinione pubblica.
Un’altra considerazione emersa è che un’efficace comunica- zione richiede una giusta scelta dei media e del timing per dare alla notizia la visibilità che si merita. Non paga la ricerca ossessi-va dello scoop, come neanche la coazione a riempire a tutti i co-sti le pagine dei giornali; quest’ultima sindrome, legata più a un horror vacui che non a una deliberata strategia comunicazionale, tende ad anestetizzare il pubblico sui contenuti dell’azienda, ren-dendo gradualmente inefficaci le future comunicazioni. Un rap-porto continuativo con i media – non solo per fare pubblicare le notizie, ma per aggiornare su ciò che sta accadendo e per rispon-dere a eventuali requisiti passeggeri o curiosità – consente anche di avere il termometro dei media e dei loro interessi puntuali in modo da essere in grado – quando serve – di scegliere il timing più adeguato.
Una efficace comunicazione dell’innovazione è particolar- mente importante all’estero, dove i pregiudizi verso le aziende italiane sono diffusi e stratificati. In questo ambito va privilegia-ta una comunicazione più fattuale, per sfatare l’immagine dell’Ita-lia come paese in declino che pensa solo alla gastronomia e al-la moda e per di più refrattario all’innovazione. I successi della telefonia mobile, della Ferrari, degli elicotteri Agusta Westland o del settore dei superyacht sembrano tuoni a “ciel sereno” e non il prodotto di un paese industrioso che sa utilizzare la tecnologia (anche se prodotta da altri) e le cui doti più importanti sfuggono alle metriche ufficiali – ancora fortemente intrise di cultura indu-striale – come il numero di brevetti o l’ammontare della spesa in R&D. Questi pregiudizi possono raggiungere anche situazioni che rasentano la comicità, come è capitato il giorno dopo il funerale di Giovanni Paolo II: il perfetto funzionamento della macchina or-ganizzativa e mediatica, unito – come ha osservato Gramellini – a quel “senso dell’ineluttabile” dei cittadini romani, ha colto di sor-presa le agenzie di informazione internazionali. La Bbc ha parlato di «trionfo dell’organizzazione», Al Jazira ha lodato le «eccellenti capacità delle forze dell’ordine italiane: neanche un incidente fra milioni di persone» e l’agenzia di stampa tedesca Dpa ha addirit-tura titolato: “I caotici italiani. Come diavolo hanno fatto?”. Per questi motivi il miglioramento dell’immagine dell’Italia all’estero deve costituire una priorità.
Un’altra osservazione degna di nota è stata fatta sull’impor- tanza di comunicare l’innovazione da parte delle piccole e medie imprese. Non solo per raggiungere clienti, partner o fornitori po-tenziali, ma anche per attrarre talenti. Generalmente le persone brillanti tendono a non lavorare per le piccole realtà (soprattutto dopo lo “sboom” della e-economy che ha reso meno appetibili le start-up e in genere le aziende piccole), poiché non le considera-no attraenti, ma anche perché non le conoscono. Un’efficace co-municazione delle loro capacità (e quindi esigenze) di innovare costituisce certamente un ottimo veicolo di reclutamento.
Infine, nel saggio di Alberto Abruzzese – vera postfazione a contrappunto di questa ricerca – vengono evidenziati nel consueto stile provocatorio, ma intrigante, dello studioso alcuni punti pro-blematici relativi alla comunicazione della tecnologia. Nella sua riflessione – sistematica pur nella brevità – egli dimostra perché la tecnologia non si può separare dall’innovazione e quanto la co-municazione sia una leva fondamentale nel determinare il succes-so o l’insuccesso, la paura o il timore verso le nuove innovazioni: «Porsi il problema su ciò che delle tecnologie può essere rischio-so o può essere opportuno ci costringe immediatamente a doman-darci per chi e a quali fini una cosa è utile o dannosa». Parlare di tecnologie ha creato della vere e proprie retoriche per dimostrar-ne rischi o benefici, che spesso si sono distaccate dagli aspetti più propriamente oggettivi. Nel caso dei nuovi media, per esempio, il loro ingresso nella società è stato spesso accompagnato da «una forte propaganda sulla loro pericolosità culturale e, di conseguen-za, sulla necessità di farne un uso tradizionalista, mentre invece tali media si sono caratterizzati nei fatti per un’assai più forte – spesso silenziosa, sommersa – espansione di nuove opportunità sociali». Anche la fisica non è rimasta immune dallo scontro fra queste opposte retoriche. «La distanza tra ricerche sull’atomo e bomba atomica è abissale non in rapporto con la qualità della tec-nologia ma con la qualità dei sistemi e soggetti sociali». È infatti l’essere umano che «caratterizza la tecnologia, è il corpo della so-cietà e quello delle persone […] a esserne il contenuto. Dunque nella frase “innovazione tecnologica” la pulsione innovativa è tut-ta nei contenuti: possono esserci tecnologie nuove e tuttavia non esserci contenuti nuovi». Nel suo inconfondibile stile provocato-rio ma insieme profondo, Abruzzese azzarda un’analogia “scomo- da”: «Proviamo a parlare di innovazione tecnologica facendo inve-ce riferimento alla pistola. A un agire comunicativo che trasmet-te pallottole e non parole o immagini». Le guerre non hanno mai cessato di esistere e per questo la civilizzazione ha creato la pisto-la, «tecnologia leggera, personale; un oggetto in evoluzione». È la cultura che ne sancisce – come per tutte le tecnologie – l’utilità o inutilità e la sua liceità: «Fuori dall’autorità che ne legittima l’uso, la pistola è una tecnologia proibita». È sempre la stessa tra le ma-ni di poliziotti e assassini, ma cambia il suo significato e quindi il suo valore. Pertanto la comunicazione dell’innovazione è della massima importanza in relazione all’impatto che in un determina-to ambiente le tecnologie hanno con i diversi attori sociali e con i loro conflitti di interesse. Per tutti questi motivi un ragionamento sulla pistola ci aiuta a capire la complessità e delicatezza dei modi in cui parlare di tecnologie.
Per concludere questo breve saggio introduttivo può essere op-portuno identificare un paio di punti aperti – particolarmente le-gati al contesto italiano – che lo spazio dell’indagine non ci ha per-messo di analizzare in profondità, ma che rimangono rilevanti per qualsiasi riflessione sulla comunicazione dell’innovazione.
Innanzi tutto come si comunica la capacità di innovare di un sistema di imprese (per esempio di un distretto) o di un raggrup-pamento di imprese. Il tema è particolarmente pertinente, date le note caratteristiche strutturali del nostro sistema produttivo. Non si tratta naturalmente solo di creare dei marchi pubblicita-ri, ma di veicolare sul mercato prodotti e capacità che spesso ri-siedono in singole persone oppure in realtà estremamente par-cellizzate. Le fiere specializzate e gli uffici di promozione sono certamente strumenti molto utilizzati, ma vi sono anche modalità più innovative come la creazione di comunità di pratica o di uf-fici per il trasferimento tecnologico. Le vecchie corporazioni dei mestieri avevano già affrontato il problema. Si tratta oggi di riat-tualizzarlo.
Il secondo tema è legato alla scarsa diffusione dei saperi scientifici, che rende più difficile (e meno interessante) una co-municazione improntata sulla notizia tecnica. I numeri oggettivi parlano chiaro: rispetto alla media europea il nostro paese ha po-chi laureati in scienza e ingegneria, pochi brevetti e, naturalmen-te, pochi investimenti in R&D. Ma la nostra tradizione ha sempre dialogato con la scienza, intendendola più come uno strumento che non un fine. È in questa direzione che bisogna spingere an-che la comunicazione. Nella nostra storia ci sono casi autorevoli: certamente la rivista PolitecnicoRepertorio mensile di studj applicati alla prosperità e cultura sociale fondata da Carlo Cat-taneo nel 1839 (trent’anni prima della prestigiosa rivista Nature), che creò una palestra di giovani collaboratori che sarebbero di-ventati famosi divulgatori nei decenni successivi. Cattaneo è con-siderato il “padre” dei divulgatori scientifici dell’Italia unita. Egli auspicava che gli scienziati producessero regolarmente «riassunti popolari», per svelare le implicazioni pratiche della tecnica in mo-do che «dalle ardue regioni della Scienza» le competenze si potes-sero utilizzare per «fecondare il campo della Pratica».
Il tema continua oggi a essere di grande attualità. Un esempio recente: la fondazione dell’Adit (Associazione per la divulgazione tecnologica) da parte di un gruppo di giovani imprenditori capeg-giati da Marco Rossi. Queste aziende, tutte di taglio tecnologico, sentono l’esigenza di rilanciare il tema della divulgazione e lo ri-tengono anche un loro compito, benché siano convinte di gravi carenze da parte delle istituzioni preposte. Contrariamente infat-ti alla tradizione anglosassone e francese, in Italia gli scienziati si spendono poco in attività dal forte carattere divulgativo, che considerano “di basso profilo “ e poco importante. Non è possibi-le lasciare ai giornalisti – seppure brillanti – il compito esclusivo di riappassionare la gente ai temi della scienza e della tecnologia; questo Cattaneo lo aveva intuito con grande lucidità: «Gli scien-ziati non disdegnino avvicinare in riassunti popolari il frutto fati-coso degli studi speciali, e per diffondere il culto della scienza, e perché solo dall’accoppiamento armonico delle singole dottrine può erompere l’elettrica corrente d’una genuina scienza dell’uo-mo e dell’universo». Un altro esempio importante e innovativo è stata la rivista Civiltà delle macchine. Ideata da Leonardo Sini-sgalli nel 1953, la pubblicazione aveva l’obiettivo di avvicinare la cultura umanistica a quella scientifica e utilizzava una veste grafi-ca raffinatissima, commissionando ad artisti prestigiosi le sue co-pertine. L’Italia è stata dunque tra i protagonisti della divulgazione scientifica; e non parliamo solo dei tempi antichi. Non più di due secoli ci separano da Cattaneo, Algarotti, Pomba Treves… Oggi il panorama non è dei più stimolanti. Vi è però un fenome- no che va considerato con attenzione. Stanno proliferando – tra l’altro con un notevole successo editoriale – le riviste di “curiosità scientifica”. Parliamo di periodici come Focus, Quark, La mac- china del tempo, Newton. Una rilevazione effettuata agli inizi del 2003 calcolava in circa 1.2000.000 copie la diffusione mensile di queste riviste, pari quasi a quella di Tv sorrisi e canzoni. Un fe-nomeno editoriale di rilevanti dimensioni. I puristi della scienza le considerano sprezzantemente “pseudoscienza”, ma è un grave errore; il loro successo è certamente legato all’abbinamento con programmi televisivi, ma testimonia di un’importante domanda la-tente di scienza, oggi canalizzata più verso le dimensioni irrazio-nali e misteriose. Certamente questo pubblico costituisce un’inte-ressante opportunità su cui costruire un processo di alfabetizza-zione scientifica, non in senso tradizionale, ma usando il linguag-gio, le narrazioni e i media contemporanei. Il successo di queste riviste non indica dunque una refrattarietà al sapere scientifico, come una parte della cultura ufficiale ha spesso paventato.
Possiamo infine affermare che un’adeguata e diffusa comu- nicazione dell’innovazione, oltre a portare alle aziende i benefi-ci di cui abbiamo parlato sopra, potrebbe contribuire a risolvere uno dei mali strutturali dell’Italia: l’individualismo spinto degli im-prenditori, che spesso degenera in autentico solipsismo. Forzan-do la diffusione delle informazioni e la condivisione del sapere, si sviluppano le reti e i meccanismi cooperativi e in questo modo le aziende iniziano a fare sistema, non per inseguire uno slogan, ma in maniera operativa e utile.
Il materiale delle interviste raccolte nel libro, preceduto dagli in-terventi dei rappresentanti dei due massimi gruppi italiani, è sud-diviso in cinque capitoli. Nel primo si affronta la dimensione stra-tegica del problema: perché è importante comunicare, che cosa succede se un’azienda non comunica o se comunica male. Nel se-condo vengono analizzate diverse modalità di comunicazione del-l’innovazione. Nel terzo vengono invece analizzati con maggiore dettaglio i casi specifici, frutto di analisi e interviste sul campo: è importante sentire direttamente dai protagonisti come viene ge-stita la comunicazione, chi se ne occupa in azienda e qual è la rilevanza attribuita a queste funzioni. Il quarto capitolo affron-ta gli aspetti più delicati della comunicazione dell’innovazione, che spesso divengono ostativi a una comunicazione efficace: per esempio, il dover parlare di prodotti e servizi che il grande pub-blico considera pericolosi o inquietanti, oppure il delicato equi-librio fra la comunicazione dell’innovazione e la protezione della conoscenza più avanzata, che deve informare senza nel contempo vanificare lo sforzo brevettuale. Infine, nel quinto capitolo vengo-no descritti i ruoli che le istituzioni presenti nei vari punti della fi-liera dell’innovazione assumono o dovrebbero assumere. Rappre-sentanti di autorità pubbliche locali, fondazioni, enti dedicati allo sviluppo propongono le loro esperienze e descrivono il ruolo che intendono svolgere nel processo della comunicazione dell’innova-zione.
Molti interventi sono stati scritti appositamente per questo vo- lume. Altri sono tratti da presentazioni e interviste. La prima parte di questa ricerca – con un inquadramento approfondito del tema – è stata condotta in Spagna nel 2004 e pubblicata dalla Fundación Cotec. Per questo motivo i contributi spagnoli sono in genere più ampi e sistematici e descrivono le problematiche in maniera più estesa. Le interviste italiane – oltre a dare naturalmente punti di vista specifici – sono state costruite in modo da completare – tal-volta in senso dialettico – i temi introdotti dagli spagnoli. In par-ticolare, queste interviste hanno seguito uno schema comune per facilitarne i raffronti: dalle questioni relative all’importanza della comunicazione per l’innovazione alla descrizione delle esperien-ze concrete delle significative organizzazioni cui appartengono gli esperti intervenuti.
A tutti, il più sentito e ammirato ringraziamento.

Source: http://www.eurosportello.eu/sites/default/files/Sole24Ore_Cotec_Innovazione.pdf

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